Democrazia, liberalismo e populismo nazionale.
- Tiziano Romano
- 15 feb
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Negli ultimi trent’anni, il concetto di democrazia ha subito un’evoluzione significativa, influenzata prima dalla globalizzazione e dalla nascita di una governance a livello sovranazionale, poi dall’adozione sempre maggiore di politiche economiche di tipo liberista a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, anche a causa della crescente influenza di movimenti conservatori, nazionalisti e populisti. In questo contesto, è cruciale chiarire anzitutto che l’idea stessa di democrazia, sempre più frequentemente considerata in pericolo, descrive una forma di governo ed è dunque per sua natura caratterizzata da una flessibilità che le consente di essere attuata in differenti luoghi e tempi per rispondere ad esigenze diverse. Per questo, si può considerare che l’affermazione di movimenti di estrema destra in Occidente non sia tanto una minaccia alla democrazia in sé, quanto una minaccia alla democrazia rappresentativa e liberale. La Destra sovranista, infatti, afferma strenuamente di essere democratica e di volere rappresentare la volontà del popolo contro i privilegi di ristrette élites. Si può ritenere che queste affermazioni non siano solamente goffi tentativi di autolegittimazione, quanto piuttosto un preciso progetto politico che si fonda su una idea di democrazia illiberale e assoluta, opposta alla democrazia in senso liberale e ordo-liberale e che avversa le sue caratteristiche legate alla libertà individuale, alla pluralità politica ed alla centralità del mercato.
A partire dal secondo dopoguerra, si è diffusa in Occidente un’idea di democrazia basata su tre pilastri, che possono anche essere ritrovati all’interno delle Costituzioni elaborate in quell’epoca, come ad esempio quella della Repubblica Italiana:
la partecipazione del popolo nelle scelte politiche attraverso il voto e altre forme di coinvolgimento popolare (art. 1);
la tutela delle libertà negative, ossia i diritti individuali e la parità di fronte alla legge, volti a garantire la libertà personale (art. 2);
l’inclusione sociale e la redistribuzione della ricchezza, per garantire pari opportunità a tutti i cittadini ed una eguaglianza sostanziale (art. 3).
Per buona parte del secondo Novecento, questi tre principi si sono mantenuti in equilibrio, adattandosi alle varie necessità. Tuttavia, dagli anni ‘80, il processo di globalizzazione, l’adozione di politiche economiche incentrate sul liberismo e la crescita d’influenza di attori sovranazionali hanno rotto questo equilibrio, erodendo soprattutto il primo e il terzo pilastro. La democrazia è così diventata sempre più centrata sulle libertà individuali e su quelle economiche, trascurando le istanze di partecipazione politica e redistribuzione economica. La globalizzazione ha eroso il potere politico a livello nazionale, dal momento che le decisioni più rilevanti necessitano di essere affrontate sempre più spesso ad un livello sovranazionale e questo accade sia attraverso istituzioni pubbliche (come l’Unione Europea, il Fondo Monetario Internazionale ecc.), sia attraverso istituti privati, (con attori come le agenzie di rating, le banche di sviluppo e le lobby economiche). Le decisioni che necessitano accordi o compromessi internazionali riguardano una enormità di aspetti, tra cui la politica economica (finanziaria, monetaria e fiscale), l’immigrazione, il contrasto alla criminalità organizzata e così via. Ciò ha limitato l’efficacia delle decisioni nazionali e portato molti cittadini a vedere la partecipazione politica come una formalità priva di potere reale. I Parlamenti nazionali appaiono incapaci di rispondere alle esigenze di una società complessa e interconnessa, riducendosi a “parlatori” o a “votifici” per ratificare decisioni prese a livello esecutivo (basti pensare al ricorso ai decreti-legge negli ultimi decenni) o ad un livello sovranazionale. Il Parlamento, che dovrebbe rappresentare il centro della sovranità popolare, è dunque percepito sempre più spesso come occupato da opportunisti e corrotti e molti cittadini avvertono il voto come un rito vuoto, incapace di generare cambiamenti reali. La crisi della rappresentanza politica si è quindi tradotta in un crescente senso di sfiducia, alimentando un vuoto democratico colmato da movimenti populisti e nazionalisti. Allo stesso tempo, a livello sovranazionale, pare sempre più difficile realizzare un complesso di luoghi e strutture in cui vi possa essere una effettiva discussione democratica sui temi che impattano maggiormente la vita delle persone. Questo avviene un po’ per una concezione del potere eccessivamente tecnocratica (si pensi ad alcune dinamiche interne all’Unione Europea, come ad esempio l’assoluta indipendenza della Banca Centrale Europea o la selezione dei Commissari Europei in base a criteri puramente tecnici), un po’ per la effettiva difficoltà di affermare processi e modalità democratiche che siano svincolati dalla rappresentatività locale o nazionale ed un po’ perché le decisioni estremamente complesse e tecniche, che devono essere prese a livello sovranazionale, spesso non possono aspettare i lunghi tempi della democrazia rappresentativa.
La crisi della rappresentanza politica è poi strettamente legata a quella del terzo pilastro democratico: la redistribuzione economica. Dagli anni ‘80, con il prevalere delle politiche liberiste, la società occidentale ha assunto come suo fulcro il mercato e le scelte di mercato. Ciò ha sminuito il ruolo sociale della partecipazione popolare e della redistribuzione della ricchezza, concentrando la nostra società sempre più sulle libertà individuali, economiche e poi civili. L’inclusione si è spostata dal piano della categoria a quello identitario, anche a causa dell’influenza americana, che ha sostituito la coscienza di classe con una logica basata su un comunitarismo che lotta per i diritti di una determinata comunità, di cui fanno parte persone che si riconoscono profondamente in una specifica identità. La Destra, nell’ultimo decennio, ha sfruttato questi mutamenti per nutrire una narrativa conservatrice e paternalistica, che individua nei diritti civili il capro espiatorio della crisi economica e sociale. Essa sostiene che il declino della giustizia economica e della protezione sociale sia colpa di una Sinistra impegnata esclusivamente nella difesa delle libertà individuali e dei diritti civili, esasperando un’incompatibilità relativa tra questioni civili e sociali, per farla apparire come assoluta. Così facendo, la Destra giustifica un conservatorismo sociale che pregiudica determinate categorie, come le donne e le minoranze, suggerendo implicitamente che la tutela dei diritti civili sia responsabile della precarietà economica. Questo le consente di ottenere un duplice obiettivo: da un lato, sostiene un’agenda sociale conservatrice; dall’altro, evita di impegnarsi concretamente sul piano economico, lasciando intendere che la mera restrizione di diritti civili possa risolvere i problemi delle fasce impoverite della popolazione.
Inoltre, la complessità della società occidentale, la sua stratificazione ed il suo immobilismo hanno favorito l’ascesa di movimenti populisti e nazionalisti, che raccolgono il malcontento di chi si sente escluso e impotente. Queste organizzazioni offrono risposte semplificate a problemi complessi che sono tuttavia ben più attraenti rispetto all’idea di “TINA” (There Is No Alternative), che continua ad essere perpetrata dalle classi politiche, per così dire, tradizionali.
Promettendo di restituire controllo e sovranità alla nazione, il nazionalismo contemporaneo propone una visione della democrazia che si avvicina in parte ai moti nazionali ottocenteschi, in cui il popolo unito doveva determinare il proprio destino senza interferenze esterne. In un mondo complesso e disordinato, la Destra risponde riaffermando un volontarismo nazionalista e autoritario, sostenendo che la volontà popolare, incarnata dal capo della nazione, debba essere imposta senza interferenze. Questa visione rifiuta la separazione tra i poteri, ritenendo che tutte le istituzioni statali debbano sottostare al Governo in quanto legittimato dalla volontà della maggioranza. Il Governo, cioè, deve essere legibus solutus, ossia libero di agire senza vincoli o interferenze, soprattutto se provenienti da una magistratura percepita come antidemocratica in quanto indipendente e non eletta. Viene promossa quindi l’idea che il capo debba avere mano libera per esercitare il potere, identificandosi con la nazione e delegittimando ogni opposizione interna. Si tratta di una forma di democrazia totalitaria e di dittatura della maggioranza, in cui il dissenso è visto come un tradimento e le minoranze come “nemici del popolo.” In questa democrazia illiberale e “assoluta,” il potere del Governo prevale su quello di ogni altro organo e la disinformazione contribuisce a consolidare il consenso e il controllo sociale.
È indubbio che l’ascesa di questa nuova Destra rappresenti una delle rivoluzioni più sorprendenti degli ultimi decenni. Nella società occidentale, tutto ciò che sembrava certo vacilla: le prassi consolidate e le convinzioni tradizionali vengono stravolte da una narrativa forte ed efficace. Appare quindi evidente che affrontare questo fenomeno non può significare semplicemente tentare di ripristinare il mondo e la società precedenti, gli stessi che hanno contribuito all’affermazione di questa Destra in una logica di mera reazione alla sua rivoluzione illiberale. È necessario, invece, costruire una nuova narrativa, altrettanto travolgente ed efficace, capace di contrapporsi a quella imposta dall’attuale Destra. Occorre riappropriarsi dell’“ottimismo della volontà”, senza limitarsi a uno sterile rifugio nel “pessimismo dell’intelligenza”, se si vuole giocare un ruolo da protagonisti nella ridefinizione di un mondo diverso.
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