Moda o sfruttamento? Fast fashion
- Carmen Guerrera
- 2 mag
- Tempo di lettura: 4 min
Negli ultimi anni la moda è diventata accessibile ad una percentuale di compratori in continua e costante crescita, tanto da renderla, in un certo senso, ‘veloce e conveniente’. A sostegno di questa ‘nuova’ moda, ci sono firme come Zara, H&M e Shein, che permettono di acquistare capi di tendenza a prezzi incredibilmente bassi, alimentando un sistema noto come ‘fast fashion’.
Il retroscena di tutto ciò è, però, un costo elevato in termini di impatti ambientali, sfruttamento lavorativo e sostenibilità economica.
A dirla tutta il ‘fenomeno’ del fast fashion non è una novità, poiché è nato e conosciuto ormai da alcuni decenni, in particolare dagli anni ‘90, con un unico obiettivo: minimizzare l’intervallo intercorrente tra la progettazione di un capo e la sua vendita nei negozi, una discrepanza temporale che ha portato ad una netta differenza con le tradizionali collezioni di moda, che seguivano un ciclo stagionale (primavera/estate e autunno/inverno). Oggi, invece, con la produzione intensiva, i brand fast fashion lanciano fino a 52 micro-collezioni all’anno, spingendo i consumatori ad acquistare sempre più spesso.
Si sono ottenuti, infatti:
1. Produzione a basso costo con salari minimi ridotti e regolamentazioni ambientali meno stringenti.
2. Materiali economici, come il poliestere, derivato dal petrolio, che riduce i costi di produzione.
3. Strategie di marketing aggressive, tramite influencer e pubblicità, che creano un senso di urgenza nel consumatore.
Tuttavia, come si accennava prima, questo mondo porta con sé numerosi costi ‘indiretti’, soprattutto a livello ambientale: l’industria della moda è la seconda più inquinante al mondo, dopo quella petrolifera. Ogni anno produce il 10% delle emissioni globali di CO₂ e consuma enormi quantità di acqua; basti pensare che per produrre un solo paio di jeans servono circa 7.500 litri di acqua, equivalenti a quella che una persona beve in 7 anni.
Ulteriori e rilevanti conseguenze sono:
1. Inquinamento idrico: i coloranti chimici e le microplastiche rilasciate dai tessuti sintetici finiscono nei fiumi e nei mari;
2. Rifiuti tessili: il modello fast fashion incentiva l’usa e getta, con milioni di tonnellate di abiti smaltiti ogni anno nelle discariche;
3. Deforestazione: per la produzione di viscosa e altre fibre artificiali vengono abbattute vaste aree di foreste tropicali.
Inoltre, dietro la produzione di vestiti economici (low-cost) ci sono condizioni di lavoro spesso inquietanti e disumane.
La maggior parte dei capi fast fashion viene prodotta in fabbriche del Sud-Est asiatico, in Paesi come Bangladesh, India, Vietnam e Cambogia, dove i lavoratori (spesso donne e bambini) sono sottopagati e costretti a turni estenuanti.
Il caso più noto è quello del Rana Plaza, un edificio crollato nel 2013 in Bangladesh e causa di oltre 1.100 morti tra i lavoratori tessili. Questa tragedia ha messo in luce le condizioni precarie in cui vengono realizzati molti vestiti e ha acceso il dibattito sulla necessità di regolamentare meglio il settore.
Il palazzo non permetteva di lavorare in sicurezza, ma i lavoratori erano stati costretti ad entrare comunque per non perdere il posto di lavoro. Tra i marchi coinvolti c’erano Primark, Mango e Benetton.
Inoltre, sono note anche le innumerevoli denunce sullo sfruttamento lavorativo effettuato da Shein;
- Un’indagine ha rivelato che in alcune fabbriche cinesi i dipendenti di Shein lavorano fino a 18 ore al giorno, guadagnando meno di 4 centesimi per capo prodotto. In alcuni casi, vengono puniti con trattenute sullo stipendio se commettono errori.
Il caso Boohoo (Regno Unito, 2020): un’inchiesta del giornale The Sunday Times ha rivelato che i lavoratori di un fornitore di Boohoo a Leicester venivano pagati meno della metà del salario minimo legale britannico e costretti a lavorare in condizioni pericolose durante la pandemia di COVID-19.
Continuano le pressioni dell’opinione pubblica; ciononostante le aziende trascurano le condizioni dei lavoratori, adottando politiche di greenwashing per ripulire la loro immagine, che spesso si risolvono in strategie di marketing che abbiano una parvenza ecologica senza, in realtà, effettuare cambiamenti reali.
Il fast fashion si nutre della mentalità dell’acquisto impulsivo. Il consumatore medio acquista il 60% in più di capi rispetto a 20 anni fa, ma li indossa la metà delle volte.
La soluzione?
Cambiare mentalità e abbracciare un modello di consumo più sostenibile:
1. Slow Fashion: privilegiare marchi etici e trasparenti, che producono in modo responsabile
2. Second-hand e vintage: il mercato dell’usato sta crescendo rapidamente, grazie a piattaforme come Vinted.
3. Riparazione e upcycling: dare nuova vita ai vestiti, invece di buttarli via.
4. Patagonia e il concetto di comprare meno: Il brand Patagonia promuove la riparazione dei capi piuttosto che l’acquisto compulsivo; nel 2011, infatti, ha pubblicato un’iconica pubblicità con lo slogan Don’t Buy This Jacket, invitando i clienti a riflettere prima di comprare nuovi vestiti.
5. Marchi etici e fibre sostenibili: materiali innovativi come il Tencel (derivato dal legno), il Piatek (simile alla pelle, ma fatto con foglie di ananas) e il cotone biologico sono sempre più diffusi.
Il fast fashion ha mostrato al mondo un’idea di moda veloce e conveniente, ma ad altissimo costo per il nostro pianeta e per chi produce. È comodo ignorare, o forse trascurare questi problemi, così da poter continuare con acquisti impulsivi, senza avere troppi sensi di colpa. Ma ci si può davvero considerare non responsabili delle conseguenze? Ogni volta che su un qualsiasi negozio online si schiaccia il tasto ‘acquista’ si sta indirettamente sfruttando, inquinando e distruggendo il pianeta.
Non si discute di ‘rinuncia’ agli acquisti, ma di cambiarne il valore: acquistando meno, valorizzando la qualità e l’etica di un prodotto.
Se davvero si vuol fare la differenza, il cambiamento deve partire dal singolo, non ci si può aspettare che siano sempre gli altri a risolvere il problema.
Ogni acquisto è una scelta. E ogni scelta ha un impatto.
The contents of the articles represent solely the ideas and opinions of the authors, and in no way reflect the views of Bocconi University.
Comments