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I contenuti degli articoli rappresentano esclusivamente le idee e le opinioni degli autori, e in nessun modo i punti di vista dell'Università Bocconi.

Anche i bambini mentono

C’è una storia dimenticata dai più, che affonda le proprie radici in un sistema malato e corrotto. Questa storia ci porta alla fine degli anni ’90 in due paesini della bassa pianura padana, in Emilia-Romagna, precisamente Mirandola e Finale Emilia, in provincia di Modena. Sono due paesini come tanti altri: una Chiesa madre al centro del paese, con una piazza davanti, dove giocano i bambini con il pallone, un castello rinascimentale e poco altro. Una piccola comunità che di giorno, operosa come api, consolida l’economia locale e sociale; ci sono artigiani, agricoltori, impiegati, insegnanti, medici; gente comune, gente semplice. Di giorno, un paesino come tanti altri; di notte, però, era proprio di notte che tutto cambiava.

Pochi anni prima, verso la metà degli anni ’80, in un bel giorno di primavera, un gruppo di ragazzini saltò la scuola e si diresse verso i vasti campi nei dintorni di Finale Emilia per passare la mattinata. I quattro ragazzi, tutti di quindici o sedici anni, appoggiarono le loro biciclette sulla ringhiera di un piccolo ponte sopra un ruscello che portava acqua ai campi. Un loro gioco era quello di andare lungo le sponde del fiume e cercare oggetti strani: una volta, pare che avessero trovato delle riviste per adulti ancora imballate, forse gettate via da qualcuno che voleva liberarsi di “prove compromettenti”. Con un bastone in mano, i ragazzi incominciarono a setacciare il torrente, alla ricerca di un buon bottino. Dopo un po’ di ricerca infruttuosa, uno dei ragazzi scorse qualcosa nella melma, qualcosa di rigido. Interessato, fece leva con il bastone per cercare di togliere quell’oggetto misterioso dalla fanghiglia. Un urlo fece gelare il sangue agli altri tre amici, che si apprestarono a raggiungere il ragazzo: non potevano credere a ciò che avevano trovato. Un teschio. Umano. I quattro corsero come fulmini alle biciclette e andarono a casa, allertando immediatamente le autorità. La polizia scientifica, arrivata sul luogo poco dopo, non troverà altre ossa, ma solo il denunciato teschio. Le analisi condotte sul cranio avrebbero dimostrato che apparteneva ad una ragazza, tra i dodici e i quindici anni, morta in maniera violenta. Si cercò subito di capire a chi potesse appartenere, verificando se ci fossero corrispondenze con le denunce di scomparsa o eventuali casi di omicidi irrisolti nella zona. Nessuna corrispondenza. Solo dopo ulteriori analisi si scoprì che, in realtà, il teschio apparteneva sì ad una ragazza di circa quell’età, morta però circa quarant’anni prima. Doveva essere infatti appartenuto ad una ragazza morta durante l’occupazione nazista della zona e, probabilmente, uccisa durante una retata o una ritirata, per poi essere gettata nel ruscello. Questa storia, apparentemente scollegata con quella di Mirandola e Finale Emilia, risulterà essere però centrale con l’impianto accusatorio deviato, che arriverà a far condannare in primo grado trentuno persone.


Come in tutti i piccoli paesini, spesso accade che la vita della comunità orbiti attorno alla Chiesa e, di conseguenza, al parroco. Il parroco di Mirandola era don Giorgio Govoni, più semplicemente noto come “Don Giorgio”. Era un parroco molto apprezzato dalla comunità dei fedeli e non solo: era chiamato “il prete col furgoncino”, poiché circolava spesso con un furgone bianco e andava di casa in casa per portare aiuto come poteva. Non era infrequente che il prete si prestasse a fare l’imbianchino, il giardiniere o il cuoco, all’evenienza.

Di giorno, una cittadina come tante altre.

Al calare delle tenebre, gli angeli diventavano demoni.

Una persona, incappucciata e vestita tutta di nero, con degli stivali lucidi, passava per alcune case del paese, bussando e aspettando che altre persone, incappucciate e vestite di nero anche loro, lo seguissero. Queste persone, poi, salivano su un furgoncino bianco.

Il protagonista della nostra storia, che chiameremo “Dario” (nome di fantasia), nel 1997 era solo un bambino di sette anni, emiliano, con i capelli ricci e gli occhialoni tondi. Un giorno, senza alcun preavviso, Dario fu allontanato dalla sua famiglia di origine, a Mirandola. La famiglia viveva in precarie condizioni economiche e non era granché integrata nel tessuto sociale del paesino, tanto che i compaesani facevano girare voci poco lusinghiere sul conto dei coniugi. Anche per questi motivi, Dario era seguito dai Servizi Sociali del Comune di Mirandola, che controllavano il suo stato di salute e la sua corretta nutrizione dopo essere stati allertati dalla scuola del bambino. Durante l’osservazione, il piccolo fu affidato ad una famiglia che abitava vicino casa sua: lì si trovava bene, era coccolato, amato, curato e nutrito. Sembrava che tutto andasse per il meglio, tanto che la famiglia di origine, assestatasi anche grazie all’aiuto del parroco del paese, si aspettava un rientro del bambino di lì a poco.

Come un fulmine a ciel sereno, i Servizi Sociali ordinarono alla famiglia affidataria di portare immediatamente Dario al “Cenacolo francescano” di Reggio Emilia, un centro di aiuto, sostegno e protezione dei minori maltrattati e soggetti a grave pregiudizio.

Una volta arrivati davanti ai cancelli dell’istituto gestito dalle suore, Dario e il suo padre affidatario si salutarono velocemente, non sapendo che si sarebbero potuti rivedere solo ventitré anni dopo.


I Servizi Sociali sono un organo del Comune attraverso il quale il Comune stesso gestisce e tutela i cittadini più fragili – in particolare i minorenni – tramite interventi di operatori specializzati, chiamati assistenti sociali, volti a ristabilire la normalità in una situazione di squilibrio. Può capitare, delle volte, che, per tutelare al meglio la salute e la sicurezza dei minori, i Servizi Sociali decidano, su ordine del giudice monocratico del Tribunale dei Minori territorialmente competente, di allontanare il minore dalla famiglia in via provvisoria e urgente e di collocarlo presso una comunità protetta, ossia una struttura gestita dai Servizi Sociali nella quale si può entrare solo con un’autorizzazione speciale e dove i minori maltrattati sono, appunto, protetti dai genitori maltrattanti.

L’ordine del giudice avviene tramite un decreto provvisorio ai sensi dell’articolo 403 del Codice Civile; il giudice, dopo aver ordinato l’allontanamento del minore, fissa delle udienze di comparizione dei genitori e degli incontri con il minore, chiedendo inoltre al Servizio Sociale di redigere una relazione di aggiornamento sulle condizioni del minore e sugli incontri con lo psicologo.

La situazione venuta fuori è impietosa: il piccolo Dario racconta di abusi sessuali e di violenze perpetrate dal padre e dal fratello maggiore nella vecchia casetta in cui abitavano.

Scattano subito le indagini della polizia che porteranno all’arresto dei due membri della famiglia d’origine del bambino.

Con il passare del tempo, gli incontri con gli psicologi del Servizio Sociale diventano sempre più pesanti, i racconti si arricchiscono di dettagli e, dopo un po’, incominciano a uscire anche altri nomi.

Nomi di bambini e bambine.

Scattano immediatamente altri arresti e nel giro di pochi giorni dai cinque agli otto bambini verranno sottratti alle rispettive famiglie, accusate di aver violentato e abusato sessualmente di loro.

In totale saranno sedici.

Dario inizia a raccontare che i bambini venivano portati ogni volta a casa di qualcuno di nuovo, venivano spogliati e i grandi gli facevano “le cose che fanno gli adulti”, mentre li fotografavano, ridevano e brindavano.

L’ipotesi della magistratura inquirente è, quindi, che nei comuni di Mirandola e di Finale Emilia, entrambi nella bassa modenese, si sia instaurato un giro di pedofili che non solo abusava dei bambini, ma li filmava e fotografava, per poi vendere i contenuti multimediali ad altri pedofili in giro per il mondo.

Furono interrogati anche altri bambini, ascoltati dagli psicologi dei Servizi Sociali presso il “cenacolo francescano”, e tutti loro, anche se non si conoscevano fra di loro, raccontavano esattamente la stessa storia.

Esattamente la stessa storia.

 

Una bambina, in uno di questi incontri con gli psicologi, che duravano anche 8-10 ore, ad un certo punto riferisce di essere impaurita dall’idea di morire. Ha sei anni, ed è alla settima ora di colloquio.

La psicologa, incuriosita da questa frase, indaga più approfonditamente, chiedendole il perché di questa paura. C’era, per caso, qualcuno che l’aveva minacciata di morte? Oppure, per caso, qualcuno le aveva mostrato delle immagini di persone morte? O, ancora, qualcuno l’aveva portata in un cimitero?

Sì, sì, era stata portata in un cimitero, da sua mamma, anzi no, da sua mamma e suo papà, anzi no, c’erano anche altre persone e c’era un dottore.

Un dottore?

Sì, un dottore, uno che quando parla lo si deve ascoltare, uno intelligente, quello da cui si va la domenica.

Un dottore? Forse un prete?

Sì, sì, un prete.

Era forse il prete di Mirandola?

Sì, sì, era lui che portava i bambini nel cimitero con mamma, papà e altri adulti.

E cosa ci faceva, di notte, in un cimitero, il parroco con i bambini? Gli faceva del male?

Dai racconti della bambina, fuoriesce una storia di satanismo, di messe nere, di bambini portati nei cimiteri di notte, costretti ad uccidere gatti neri o neonati, oppure chiusi per ore in delle bare e sotterrati vivi. Riportava che questo rituale serviva a farli morire e rinascere come figli di Satana e non più come figli di Dio.

A capo dei Servizi Sociali della sezione Emilia, c’era lo psicologo Claudio Foti (ci resterà fino al 2019, quando scoppierà il caso “Bibbiano”). Interessatosi del caso, secondo le vittime, oggi diventate adulte, e secondo i giornalisti, Foti avrebbe imposto una metodologia di interrogatorio dei minori detta “induttiva”, proprio perché cercava di indurre i bambini a ricordare a tutti i costi. Così, anche gli altri bambini allontanati dalle famiglie in quella zona furono interrogati seguendo questo “protocollo”, che prenderà il nome di “metodo Foti” e che avrà una grande rilevanza anche nel caso “angeli e demoni”, ossia quello che tutti conosciamo come “caso Bibbiano”.

Pian piano, tutti i bambini confessarono di essere stati portati dal parroco in alcuni cimiteri della zona, dove avrebbero dovuto uccidere ogni notte cinque neonati a testa, dove avrebbero dovuto dissotterrare cadaveri, compiere sacrifici e messe nere. Ogni notte, per due anni.

Molti vengono arrestati, alcuni, due in particolare, non reggono la pressione. Si suicida così una delle mamme coinvolte nell’inchiesta, lasciando un biglietto di addio, che per molti indicherebbe la sua rassegnazione e la prova della sua colpevolezza, mentre per altri solo il sintomo di una giustizia inceppata, che lascia sulla strada vittime innocenti. Poco dopo morirà anche il parroco di Mirandola, don Giorgio, stavolta di infarto; non reggeva le gravi accuse mossegli, lui che era un uomo di Chiesa, apprezzato dalla comunità più che per il suo ruolo, per la persona che era.

Era quindi tutto vero? Sotto gli occhi di tutti era nata una setta satanica che commetteva plurimi omicidi di neonati nei cimiteri, che beveva sangue umano, che tumulava bambini per poi dissotterrarli e consacrarli a Satana? Di giorno, uomini e donne comuni, ricchi e poveri, commercianti e contadini, alti e bassi, giovani e anziani, di notte efferati omicidi, adoratori del demonio e cultori della chiesa di Satana.

E quel teschio, ritrovato qualche anno prima, sembrava essere la prova di omicidi e sparizioni in quella zona. Come era possibile, però, che ci fossero decine e decine di omicidi a settimana, ma nessun cadavere era mai stato rinvenuto? Eh sì, furono setacciati a fondo tutti i canali dei paesi coinvolti e di quelli limitrofi, furono condotte analisi approfondite su tutti i territori, ma niente, nessun cadavere emergeva. La procura allora ipotizzò che le vittime provenissero da un sospetto traffico di neonati provenienti dall’est Europa, venduti sul mercato nero, che, una volta uccisi e mutilati, venivano rispediti al mittente. Di questo, però, ancora una volta, non si trovò neanche una traccia.


Tramite i continui e prolungati colloqui con gli operatori del Servizio Sociale, ai bambini riaffioravano ricordi apparentemente seppelliti. Ricordi di maschere a forma di volti di animali: un lupo cattivo, un gufo, dei cani, un corvo e altri, indefiniti; ricordi di neonati, uccisi con le loro stesse mani; tantissimi ricordi di cose orribili che, stando a quanto riportato nei verbali degli incontri tra operatori e minori, erano stati obbligati a fare dai genitori e dagli altri adulti.

Avete presente una trappola per topi? Quelle con il pezzettino di formaggio, dove il topo, attratto dal facile bottino, si avvicina e viene bloccato da un pezzo di metallo che scatta grazie a una molla azionata dal peso dello stesso topo sulla trappola. Quelle di Tom e Gerry, per intenderci. Una volta, uno psicologo e professore della Cornell University, l’italoamericano Stephen J. Ceci, parlando con un nipotino, ha notato che quest’ultimo inventava una storia falsa solo per cercare di compiacere una sua curiosità. Più ne parlava, più questa storia si faceva approfondita e piena di dettagli. Qualche anno dopo, parlando di un argomento simile, il nipote – diventato ormai ragazzo – ricordava con assoluta certezza di aver vissuto quanto raccontato qualche anno prima allo zio. Ne era certo. Incuriosito da questa dinamica, Stephen incominciò a condurre alcuni esperimenti psicologici, facendo colloqui con una moltitudine di bambini dove parlavano di cose normali, di giochi e cartoni animati. Ad un certo punto, il dottor Ceci introduceva una domanda particolare: “Come ti sei fatto male con la trappola per topi?”; inizialmente straniti, tutti i bambini di un’età inferiore ai dieci anni – i cosiddetti “preschoolers” – incominciarono a raccontare storie totalmente inventate (nessuno si era fatto male con una trappola per topi) ma molto dettagliate e soprattutto con molti riferimenti alla realtà delle loro abitazioni o dei luoghi in cui vivevano. Negli incontri successivi, tutti i bambini raccontavano l’episodio come un ricordo vero e proprio, alcuni addirittura arrivarono a somatizzare il dolore della ferita. Lo studio di Ceci dimostrò come è possibile innestare falsi ricordi nella mente dei bambini, soprattutto dei più piccoli. Venne quindi postulato che, quando un bambino parla con un adulto nel quale identifica una certa autorità (genitore, maestro, giudice, psicologo, medico, …), tende a cercare di compiacerlo, arrivando ad inventare falsi ricordi solo per non deludere le aspettative di quest’ultimo.


Negli anni Novanta, negli Stati Uniti, dilagò un’isteria collettiva; i satanisti erano ovunque: il vicino di casa, lo zio che abita in periferia, il collega in ufficio, la maestra dei figli. Le madri più protettive, vedendo i propri figli tornare da scuola con un livido, o un graffietto (magari causati dai giochi, dalle corse o da altre attività poco pacate, tipiche dei bambini più piccoli), incominciavano a riempire i figli di domande: “Chi è stato?”, “Te l’ha fatto la maestra, vero?”, “Vi fa spesso del male? Ha detto qualcosa sul diavolo, vero?”. Alle risposte negative dei bambini, spesso li si ammoniva di non dire bugie e così il gioco era fatto: i bambini iniziarono a dire che le maestre facevano giochi strani, a sfondo sessuale, durante i quali veniva invocato il diavolo; e poi c’erano anche altri, e poi si andava nei cimiteri, e poi si uccidevano bambini e si beveva il loro sangue. Stati Uniti, fine anni ’80, inizio anni ’90. Si aprì anche una commissione di inchiesta parlamentare, in quanto storie del genere si propagarono in maniera incontrollata in tutti gli States. Nel giro di poche settimane, però, tutto finì nel dimenticatoio.

Episodi come questo sono avvenuti in tutto il mondo e nelle stesse identiche modalità. Raccontavano tutti esattamente la stessa storia.

Esattamente la stessa storia

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Anche i bambini mentono. E una loro bugia può evocare l’inferno” mi disse una volta Pablo Trincia, autore dell’inchiesta che prende il nome di “Veleno” su questi fatti, quando l’ho incontrato per fare maggiore chiarezza sulla vicenda.

Con il passare dei mesi, la storia iniziò a non essere più d’interesse. Un velo di nebbia iniziò a stendersi su tutta la faccenda e ci si iniziò a dimenticare velocemente della setta di pedofili e adoratori del demonio che aveva (o avrebbe) afflitto la bassa padana in quegli anni. Oggi, in quei paesi, nessuno sa e nessuno ricorda.

Il demonio non esisteva più, e le maschere dei diavoli della bassa modenese incominciarono a sgretolarsi e diventare polvere portata via dal vento, perduta nell’oblio della nebbia padana. Dimenticata, nascosta, celata. Mirandola tornò ad essere un paesino come tanti altri, dove ci si salutava con i vicini con un segno del capo al mattino mentre si andava al lavoro, dove al bar i vecchietti giocavano a briscola, dove i bambini giocavano a pallone nella piazza davanti alla Chiesa. La setta di pedofili era un brutto, dimenticato, ricordo.

Un ricordo.

Un ricordo, come quelli instaurati nella mente di sedici bambini, allontanati dalle rispettive famiglie. Alcuni sono ancora convinti che tutto sia accaduto veramente, altri non ne vogliono parlare, comprensibilmente per paura, altri, come Dario, vogliono avere giustizia. Dei familiari, alcuni sono morti, altri spariti, alcuni non hanno più visto i propri figli, per più di vent’anni.

Ma perché è potuto accadere? Perché i Servizi Sociali non hanno risposto del loro operato?

 

Qui si apre la parte conclusiva di questo articolo, quella più giuridica.

Innanzitutto, i Servizi Sociali operano su impulso della Procura o di segnalazioni di organi di polizia o pubblica sicurezza e sono composti anche da esperti nel settore della psicologia, psichiatria e pedagogia. Quando intervengono a tutela dei minori, incaricati dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale dei Minori o dal Tribunale dei Minori stesso, spesso collocano il minore presso strutture “protette”, a tutela della sicurezza e dell’integrità psicofisica del minore stesso (i.e. il “cenacolo francescano” citato in precedenza). Ivi, procedono con un iter di ascolto del minore, con l’ausilio, per l’appunto, di psicologi ovvero di psichiatri, cercando di capire quale sia la reale situazione di pregiudizio per il minore per poi riferire il tutto al Giudice competente.

Il Giudice, letta la relazione, sentiti i genitori e assunte le prove necessarie, decide sulla collocazione del minore, nel principio del “libero convincimento”.

Seppur formalmente libero, il convincimento del Giudice è però principalmente fondato sulle relazioni dei Servizi Sociali in quanto sono gli unici che hanno, di fatto, il polso della situazione del minore. Inoltre, le dichiarazioni dei minori hanno un’importanza non indifferente.

Normalmente, i Servizi Sociali agiscono in buona fede e ottemperano ai loro doveri, riportando la realtà dei fatti e discernendo in maniera critica e professionale ciò che viene riferito dai minori.

La normale prassi psicologica, inoltre, vieta domande “induttive”, in quanto capaci di influenzare altamente tutte le menti, soprattutto sui minori: in pratica, nella domanda non dev’essere contenuta la risposta, esattamente come prevede la deontologia nell’escussione dei testi.

Ritornando al procedimento a tutela del minore: il Giudice emette un decreto definitivo o una sentenza, con la quale può disporre l’affidamento del minore presso una famiglia terza, dichiarando la decadenza della famiglia d’origine dalla responsabilità genitoriale e, addirittura, vietandone l’avvicinamento. Il Servizio Sociale, a questo punto, non c’entra più niente: tra loro e il minore è intervenuta una sentenza che ha quindi liberato dalla responsabilità il Servizio; dunque, se l’allontanamento del minore non era in realtà necessario, ora non interessa più agli Assistenti Sociali, in quanto non è loro la responsabilità.

Ma se le relazioni dei Servizi Sociali circa le dichiarazioni dei minori sono state “falsate” da un’attività contro qualsiasi regola psichiatrica, e quindi il convincimento del Giudice è stato fondato anche – se non soprattutto – su prove falsate, non dovrebbe risponderne qualcuno? Ad oggi, no.

 

Inoltre, nel ,1981 la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale l’intero articolo 603 del Codice Penale, che puniva il reato di plagio, comunemente noto come “lavaggio del cervello”, poiché, all’epoca, non era considerato possibile incriminare una condotta meramente psicologica e poiché si riteneva che potessero essere condannate anche condotte non illecite, come l’appartenenza a una religione o a una setta religiosa. All’epoca, però, non erano ancora emersi quegli studi che oggi ci dimostrano il contrario. La rilevanza dell’assenza di un espresso reato che punisca il plagio, la manipolazione mentale, si può ripercuotere su attività come quelle condotte, in questo caso (così come nel caso di Bibbiano), sull’attività di operatori che hanno a che fare con la psiche di persone fragili o deboli, come, ad esempio, i minori. Il sunto è: io, operatore socioassistenziale, posso impunemente indurre un bambino a denunciare i propri genitori di violenze sessuali mai avvenute, avendo le spalle coperte da un sistema non del tutto chiaro, cosicché, anche qualora venissi scoperto, non ci sarebbe una pena per la mia condotta. Il mio parere personale è che ci si trovi dinnanzi ad una lacuna del sistema penalistico italiano, così come anche sostenuto dall’avvocato Antonio Di Santo nel suo articolo pubblicato su “Altalex”, che non a caso ha denominato “Manipolazione mentale: il buco nero dell’attuale impianto penale”, che invito a leggere.


Per fare chiarezza, e per dovere di cronaca, bisogna riportare anche altre opinioni per quanto riguarda lo psicologo Claudio Foti, al quale è stata attribuita dai giornalisti la responsabilità di aver istituito il “metodo Foti”. Egli è stato recentemente prosciolto da qualsiasi tipo di accusa in merito al processo riguardante i fatti di Bibbiano. Secondo il parere di una moltitudine di psicologi, Foti è stato ed è tuttora un grande psicologo, estremamente zelante e dedito al lavoro. Sin dall’inizio della sua carriera, Foti si interessò al tema delle violenze sui minori e di come individuarle in quei bambini che le nascondono dietro a comportamenti apparentemente normali, ma che celano in realtà un grande disagio. Per questo, egli stesso ha fondato un’associazione (“Hansel e Gretel”) per il supporto psicologico e materiale ai minori vittime di abusi.

Il cosiddetto “metodo Foti”, va specificato, è un tipo di approccio che tende alla ricerca della violenza in maniera, sì, incisiva ma non induttiva: si cerca di porre il minore nelle condizioni di rivelare tutto, senza però indurlo a raccontare cose in maniera coercitiva e senza, ovviamente, “imboccargli” le risposte. Il problema, a detta di molti psicologi, non è stato Foti – che, invece, sarebbe stato un “martire”, il capro espiatorio individuato dai giornalisti – bensì quegli psicologi che hanno abusato di questo metodo, fino ad andare contro qualsiasi tipo di protocollo medico-psicologico.

 

L’inferno è vuoto, tutti i diavoli sono qui.”

W. Shakespeare, The Tempest



I contenuti dell’articolo rappresentano esclusivamente le idee e le opinioni dell’autore, Carlo Buccisano, e in nessun modo i punti di vista dell'Università Bocconi né dell’associazione IUS@B.

 

 
 
 

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