top of page

I contenuti degli articoli rappresentano esclusivamente le idee e le opinioni degli autori, e in nessun modo i punti di vista dell'Università Bocconi.

Spazio alle donne

Ogni 2 giugno festeggiamo con piacere il vittorioso referendum che ha reso la nostra Italia una Repubblica democratica, ma è davvero l’unico evento che dovremmo celebrare?

Il giorno 2 giugno 1946 ha segnato una svolta epocale per tutti noi cittadini, ma in particolare per le cittadine che per la prima volta nel corso della storia italiana, hanno potuto esercitare il proprio diritto di voto.

L’affluenza al voto in sede di referendum fu memorabile, contò 12 milioni di donne contro gli 11 milioni di uomini votanti.

Attualmente pensare che le donne possano votare liberamente è banale, è qualcosa di ormai implicito e di radicato nei nostri immaginari.

Ma se ci fermiamo a guardare la linea del tempo, ci accorgiamo che prima del 1946 nessuna linea era stata mai marcata e soprattutto ci rendiamo conto che questa traccia inizia a propagarsi in un tempo davvero recente, poco lontano dai nostri giorni.

Un passato prossimo è un tempo che non possiamo ignorare, che non possiamo non conoscere.

È per questo motivo che insieme al 2 giugno 1946, c’è un’altra data che dobbiamo avere a cuore, il 25 di giugno dello stesso anno.

È questo il giorno in cui, per la prima volta, si riunì l’Assemblea costituente (presieduta da Giuseppe Saragat) di cui facevano parte 21 donne.

Il 15 luglio 1946 l’Assemblea deliberò l’istituzione di una Commissione – cosiddetta “Commissione dei 75” – composta appunto da 75 membri ed incaricata della elaborazione e conseguente proposizione del progetto costituzionale. Fra questi 75, sedevano 5 donne. Di certo ancora in netta minoranza rispetto ai 70 componenti di sesso opposto, ma non per questo meno determinate a gettare basi solide per una concreta emancipazione femminile.

È proprio questo ciò che hanno fatto le pioniere, madri costituenti: hanno innalzato concrete fondamenta seppur respirando un clima ancora ostile e scettico rispetto alla parità sostanziale, hanno consentito che le donne potessero affermarsi, sempre valorizzando la diversità, mai accettando l’omologazione al sesso maschile.

A porre particolare enfasi su questi temi scottanti furono in modo particolare Nilde Lotti, Maria Federici, Lina Merlin, Teresa Noce, Ottavia Penni Buscemi. A loro si deve la stesura di articoli che garantiscono, senza limiti di spazio e tempo, una reale eguaglianza.

Di certo, l’articolo che meglio valorizza queste conquiste è il numero 3 della nostra Costituzione, che recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Il comma 1 è a suo modo rivoluzionario: non si parla solo di eguaglianza formale, ma con l’espressione “dignità sociale” si sancisce una forma ancora più profonda di non discriminazione, quella che si esplica nella cosiddetta eguaglianza sostanziale, promulgata al secondo comma.

Ed è proprio grazie ad una donna che il comma 2 assume questa accezione: gli interventi di Teresa Mattei furono senza dubbio determinanti per il raggiungimento di un tale livello di impegno, da parte della Repubblica stessa, ad assicurare la parità rimuovendo gli ostacoli che la minano, intervenendo attivamente sulla scena sociale.

Ad una stessa finalità mirano poi quelle che conosciamo come “azioni positive”, deroghe all’eguaglianza formale, volte al perseguimento e all’attuazione di quella sostanziale.

Pensando ad un riscontro attuale di tali azioni positive, l’esempio più calzante sarebbe quello della cosiddetta “doppia preferenza di genere” (che deve la sua fioritura alla Sent. 4/2010 della Corte costituzionale), che per i comuni con più di 5000 abitanti consente agli elettori di esprimere due preferenze, anziché una, perché attribuite a candidati di diverso sesso.

Ma se davvero volessimo illuminare i segni che le madri costituenti hanno tracciato con grande determinazione, non potremmo ignorare a tal fine gli artt. 29, 30, 31, 37, 48 della Carta costituzionale.

In essi, rispettivamente, si eguagliano i coniugi moralmente e giuridicamente all’interno del matrimonio, si equiparano i diritti ed i doveri genitoriali anche al di fuori del matrimonio, si protegge la maternità, e ancora si attribuiscono alla donna lavoratrice gli stessi diritti ed a parità di lavoro le stesse retribuzioni degli uomini, si garantisce la qualità di elettore ad ogni cittadino, uomo o donna che sia, che abbia compiuto gli anni 18.

Una parentesi più corposa va dedicata, a tal proposito, all’articolo 51 della Costituzione.

Ai tempi della redazione di tale articolo era in vigore la legge n. 1176 del 17 luglio 1919, dedicata alle “Norme circa la capacità giuridica della donna”, che all’articolo 7 sanciva l’ammissione delle donne “a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gli impieghi pubblici”, escludendole però,  salvo diversa espressa previsione di legge, dalle professioni che concernessero “poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato”.

Con il regolamento di attuazione n. 39 del 4 gennaio 1920, la portata di questa norma venne ulteriormente ridotta tramite l’individuazione degli innumerevoli pubblici uffici preclusi alle donne, fra cui spicca di fatto quello di magistrato.

Alla luce del quadro normativo di riferimento, l’art. 51 (all’epoca art. 48) venne approvato in una formula alquanto ambigua che poneva la riserva di legge per l’indicazione dei requisiti necessari per l’accesso alla magistratura.

Cruciali furono però gli interventi delle madri costituenti.

Specialmente quelli progressisti dell’On. Teresa Mattei, che si trovò a fronteggiare le continue, inarrestabili e soprattutto inaccettabili discriminazioni che costantemente e senza rimorso alcuno, i suoi colleghi decantavano in ogni seduta, riducendo la figura femminile ad un agglomerato di emozioni capaci unicamente di sovrastare la ragione.

Fu proprio sull’art. 51 e sulla interpretazione da attribuirgli che si inaugurarono i maggiori dibattiti sulla questione della magistratura femminile, che condussero, seppur seguendo una strada lunga e tortuosa, alla pronuncia della Corte costituzionale in merito.

Con la sentenza n. 33 del 1960, la Corte accolse l’eccezione di incostituzionalità sollevata dal Consiglio di Stato e dichiarò, finalmente, illegittimi l’articolo 7 della legge n 1176/1919 e l’art. 51 comma 1.

L’articolo 51, da quel momento in poi, sarebbe stato interpretato alla luce dell’art. 3 e dunque come una specificazione dello stesso.

Fu proprio per dare attuazione a tale dichiarazione di incostituzionalità che venne emanata la legge n. 66 del 1963 al fine di abrogare le disposizioni previgenti e di consentire l’accesso alle donne a tutti gli impieghi pubblici, anche alla magistratura. Il 3 maggio dello stesso anno fu bandito il primo concorso a cui poterono partecipare liberamente le donne, fu così che l’Italia conobbe le sue prime otto magistrate.

Ed è proprio così che inizia una storia tutta nuova, una storia al femminile che non conosce distinzioni di sesso e che non teme alcun confronto: è consapevole di avere un inestimabile valore.




The contents of the article represent solely the ideas and opinions of the author and in no way the opinions of Bocconi University or the IUS@B association.


Comments


bottom of page