No man's land - La terra [promessa] di nessuno
- Carlo Buccisano
- 20 nov 2023
- Tempo di lettura: 12 min
I contenuti dell’articolo rappresentano esclusivamente le idee e le opinioni dell’autore, Carlo Buccisano, e in nessun modo i punti di vista dell'Università Bocconi né dell’associazione IUS@B.

Il popolo ebraico – che, ben inteso, non condivide solo la religione ma anche una storia ed una cultura– da sempre è stato vittima di diaspore e cacciate. La prima avvenne con la conquista romana del Medio Oriente, avvenuta intorno al 63 a.C. L’accesso alla città di Gerusalemme venne interdetto ai figli di Israele in quanto riconsacrata al dio Sole (infatti assunse il nome di Aelia Capitolina). Ha avuto così inizio la Grande diaspora, ovverosia l’emigrazione verso il nord Africa e l’Europa (e successivamente verso l’America) di quella parte del popolo ebraico che andò a cercare fortuna altrove.
Con il passare dei secoli, in Europa si stabilirono varie comunità di ebrei, mantenendo sempre un’identità autonoma dal resto della popolazione: in ogni città viveva una comunità ebraica. L’isolamento degli ebrei dal resto della comunità era dovuto ai pregiudizi di quest’ultima: da un lato, la Chiesa riteneva gli ebrei responsabili della crocefissione di Cristo e, dall’altro, il potere pubblico malvedeva gli israeliti perché spesso possedevano più oro e ricchezze del resto della popolazione. A Venezia si instaurarono laddove c’erano le fonderie di metallo e oro, da cui venivano calati i “getti” di metallo fuso; dunque, l’isolato degli ebrei veneziani verrà chiamato “géto” e poi “ghetto”. Nascono così i ghetti ebraici in giro per il vecchio continente.
Nella società di fine Ottocento, prima della seconda guerra mondiale, gli ebrei si erano ormai integrati con la società civile: i ghetti esistevano ancora, ma molte persone ne erano uscite e avevano stabilito famiglie, anche fermamente cristiane e cattoliche. Con il primo conflitto mondiale, molti ebrei vennero chiamati alle armi e premiati per il servizio reso al proprio Paese. Ironia della sorte, molti eroi di guerra tedeschi e italiani erano ebrei e il milite ignoto al quale Hitler rese omaggio nella sua visita a Roma del maggio del 1938 pare che fosse di origine ebraica (e, nota di colore, combatté proprio contro i tedeschi). L’antisemitismo esisteva, come nei secoli precedenti, ed era vissuto come fenomeno latente, ma non era un fenomeno diffuso, tanto che, in alcuni casi eclatanti, l’opinione pubblica si mosse contro episodi di discriminazione: uno su tutti, il caso Dreyfus, riportato da Émile Zola nell’opera “J’accuse”.
Nel frattempo, in Medio Oriente – che ormai era stato pressocché abbandonato dagli Ebrei – la situazione sociopolitica iniziava ad essere assai delicata. I territori che vanno dal sud della Cappadocia alla Giordania vengono spartiti come bottino di guerra fra Inglesi e Francesi, dopo la caduta del secolare Impero Ottomano. Dopo quattrocento anni di dominazione turca, la spartizione della regione fu pianificata da Francia e Inghilterra con l’accordo segreto di Sikes-Picot (firmato il 16 maggio 1916) che divideva l’area compresa tra la Siria e l’Iraq in differenti aree d’influenza. La Palestina venne quindi occupata dalle forze militari britanniche nel 1917. Già durante gli anni della Grande Guerra, però la Gran Bretagna aveva sostenuto, tramite l’ufficiale dell’intelligence T. E. Lawrence[1], la creazione di uno Stato arabo unito, che comprendesse una vasta area del Medio Oriente arabo, in cambio del sostegno arabo agli inglesi durante la guerra. Contestualmente, con la Dichiarazione Balfour del 1917, l’allora ministro degli esteri inglese Arthur Balfour scriveva a Lord Rothschild, visto come principale rappresentante della comunità ebraica inglese e referente del movimento sionista. Con tale dichiarazione, il governo britannico affermava di guardare con favore alla creazione di una “dimora nazionale per il popolo ebraico” in Palestina, nel rispetto dei diritti civili e religiosi delle altre minoranze religiose residenti.
Dopo gli orrori del Nazifascismo, culminati nei campi di sterminio e i rastrellamenti nelle città, gli ebrei cercarono di ricompattarsi attraverso un vero e proprio “senso di unità nazionale”. Nazione che però, sulla carta, non disponeva di uno Stato. Il movimento sionista, nato per l’appunto in questo periodo, poi sfociato in estremismo razzista[2], rivendicava un territorio per la Nazione di Israele, identificandolo in quelle terre che circondano Gerusalemme.
Il 14 maggio del 1948, dopo vari tentativi – falliti – da parte delle Nazioni Unite di arrivare a un disegno condiviso da tutti, venne dichiarata unilateralmente la nascita dello Stato di Israele e il giorno seguente le truppe britanniche si ritirarono definitivamente da quei territori che erano sotto il protettorato inglese da dopo la Prima guerra mondiale. A seguito di un attacco da parte di alcuni stati arabi limitrofi[3], che non avevano riconosciuto il neonato Paese, Israele conquistò centinaia di città e villaggi arabi palestinesi. Questo è il casus belli di quel conflitto che per decenni, seppur in maniera non costante, ha flagellato e flagella il Medio Oriente. Centinaia di migliaia di arabi palestinesi, che abitavano in quelle terre ormai da generazioni, da un giorno all’altro furono costretti ad abbandonare il territorio. Questa migrazione forzata viene oggi ricordata come “esodo palestinese” del 1948 [4]. La Guerra arabo-israeliana del 1948 si concluse con l’armistizio di Rodi, che stabilì la cosiddetta “Linea Verde” [5]. Il numero di rifugiati palestinesi provenienti dai territori controllati da Israele raggiunse le 711.000 persone. Una crisi umanitaria di emigrazione quasi senza precedenti: nel giro di pochi giorni, poco meno di un milione di persone furono costrette, sotto i colpi dell’artiglieria, ad abbandonare le proprie case. Iniziò uno stato di quiete – chiamarla pace è azzardato – che perdurò per circa vent’anni. Nel 1967, però, scoppiò la “guerra dei sei giorni”. In questa “guerra lampo”, Israele decise di attaccare preventivamente i paesi arabi circostanti, al fine di ottenere maggiori territori da annettere, conquistando la Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, la striscia di Gaza, la penisola del Sinai e le alture del Golan [6]: tutte aree dove, a discapito dei palestinesi che vi vivevano, lo stato ebraico promosse nuovi insediamenti. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU invitò al rispetto dei confini ed a una pace “giusta e duratura”; dichiarazioni spese, però, invano. Il conflitto instauratosi si concluse solo dopo 11 anni quando, nel 1978 con gli accordi di Camp David, lo Stato di Israele si impegnò a restituire la penisola del Sinai, mentre l’Egitto si impegnò al riconoscimento giuridico dello stato. Questo accordo reciproco garantì da una parte gli effetti giuridici che comporta il riconoscimento di uno Stato (soprattutto per quanto riguardano le deterrenze ad un attacco militare contro questo) e dall’altro si ebbe un riequilibrio dei territori controllati, restituendo la penisola del Sinai all’Egitto.
La pace, però, per Israele durò pochi anni; infatti, nel 1987 scoppiò la prima intifada[7] che fu una sollevazione palestinese di massa contro il dominio israeliano che iniziò nel campo profughi di Jabaliya e presto si estese attraverso Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est. L’azione palestinese si espresse in un gran numero di forme, inclusi la disobbedienza civile, gli scioperi generali, il boicottaggio di prodotti israeliani, i graffiti e le barricate, ma furono i lanci di pietre da parte di giovani contro le forze di difesa israeliane che portarono l’intifada all’attenzione internazionale. Durante il corso della prima intifada, durata circa sei anni (1987 – 1993), furono uccise più di millecento persone di origine palestinese, mentre le vittime israeliane per mano palestinese furono circa centosessanta [8]. Queste rivolte, causate dal crescente malcontento fra i palestinesi, anche a causa di numerosi soprusi e violenze da parte delle autorità israeliane, terminarono nel 1993 quando, sotto l’egida degli Stati Uniti durante la presidenza Clinton, vennero firmati gli “accordi di Oslo”. Ufficialmente chiamati “Dichiarazione dei Principi riguardanti progetti di auto-governo ad interim” o “Dichiarazione di Principi” (DOP), gli accordi di Oslo sono una serie di accordi politici conclusi nella capitale norvegese il 20 agosto 1993 Essi furono il risultato di una serie di intese segrete e pubbliche tra il governo israeliano e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (che agiva in rappresentanza del popolo palestinese), come parte di un processo di pace che mirava a risolvere il conflitto arabo-israeliano. Questa pace, ancora una volta, non era destinata a durare.
Il 28 settembre del 2000, l’allora capo del Likud (partito di estrema destra e nazionalista ebraico) Ariel Sharon andò in visita al Monte del Tempio, luogo sacro per musulmani ed ebrei[9], accompagnato da una delegazione del suo partito e da centinaia di poliziotti israeliani in tenuta antisommossa. Secondo i palestinesi, il gesto di Sharon intendeva rivendicare la sovranità israeliana ed ebraica sul luogo; ciò avveniva in un momento di altissima tensione tra le popolazioni dovuto al recente fallimento dei negoziati di Camp David e al riacutizzarsi di violenze indiscriminate da parte delle forze dell’ordine israeliane. L’episodio fu elemento scatenante di una guerra “calda” che è passata alla storia come “Seconda Intifada”. Gli effetti di questa seconda rivolta, che causò 6.626 morti, sono tuttora dibattuti e non è nemmeno chiaro quando essa sia terminata: una distensione nei rapporti fra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) può essere effettivamente riscontrata solo nel 2004, quando cioè la morte di Arafat [10] e la caduta in coma di Sharon non rivoluzionarono lo scenario. La successiva vittoria elettorale degli estremisti palestinesi di Hamas ha riacceso i rapporti tesi fra il nuovo governo israeliano e l’ANP. In linea generale, però, la fine dell’intifada è riconducibile al 2005. In tale anno, infatti, fu attuato il “Piano di disimpegno unilaterale israeliano” con cui le forze israeliane si ritirarono dalla striscia di Gaza, lasciandola al controllo palestinese [11].
Il nuovo conflitto – 7 ottobre 2023:
Dal 2005 ad oggi non si può di certo dire che i rapporti fra Israele e Palestina siano stati idilliaci; anzi, tutt’altro. A seguito dell’attacco da parte dell’esercito israeliano alla Moschea di al-Aqsa, in data 7 ottobre 2023, il gruppo armato di Hamas ha lanciato circa 5000 missili verso Tel Aviv, dando il via al Conflitto Gaza-Israeledel 2023. A onor del vero, il territorio della striscia di Gaza e lo Stato di Israele sono in conflitto dal 2005, dopo il ritiro israeliano dalla Striscia e dall’acquisizione da parte di Hamas del controllo del territorio dopo le elezioni dell’anno successivo. L’attacco è avvenuto durante la festa ebraica della Simchat Torah e lo Shabbat, e un giorno dopo il cinquantesimo anniversario della guerra del 1973 dello Yom Kippur [12]. Prima dell’attacco, nel solo 2023 almeno 247 palestinesi sono rimasti uccisi dalle forze israeliane, mentre 32 israeliani e due cittadini stranieri sono rimasti uccisi in attacchi palestinesi.
Il comandante delle brigate palestinesi Mohammed Deif ha riferito, in un messaggio registrato, che l’attacco era in risposta alla “profanazione della moschea di Al-Aqsa” e all’uccisione e al ferimento di centinaia di palestinesi nel corso dello stesso anno da parte di Israele. Ha invitato i palestinesi e gli arabi israeliani a “espellere gli occupanti e demolire i muri”. Il leader di Hamas, Saleh al-Arouri, ha affermato che l’operazione è stata una risposta “ai crimini dell’occupazione”, aggiungendo che i combattenti stavano difendendo la moschea di Al-Aqsa di prigionieri palestinesi detenuti da Israele, che come è stato stimato dall’ONG “Addameer per i diritti dei prigionieri”, sono quasi 5.200, di cui 33 donne e 170 minori. Un portavoce della Jihad islamica palestinese ha dichiarato di non considerare civili i cittadini israeliani: “Non stiamo uccidendo civili. Questa è una società militare. Sono loro che eleggono i loro governi”. Hamas, gruppo paramilitare, rivendica quindi gli attacchi, giustificandoli in base alle quotidiane violenze contro i palestinesi da parte di Israele e a causa del raid contro la moschea. Per loro, questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. In una polveriera pronta a esplodere, anche la minima scintilla può far esplodere tutto.
La risposta israeliana non è tardata ad arrivare. Infatti, il 7 ottobre, il sistema di difesa aerea israeliano è stato attivato. Il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della difesa hanno condotto valutazioni di sicurezza presso il quartier generale delle forze di difesa israeliane (IDF) a Tel Aviv. In seguito, è stata approvata la mobilitazione di decine di migliaia di riservisti dell’esercito ed è stato dichiarato lo stato di emergenza per le aree entro 80 chilometri dal confine di Gaza. Netanyahu, assieme al ministro della difesa, ha anche affermato che Hamas “ha commesso un grave errore nel lanciare il suo attacco” e ha promesso che “Israele vincerà”. I riservisti sarebbero schierati non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania e lungo i confini con Libano e Siria. Ai residenti nelle aree intorno alla Striscia di Gaza è stato chiesto di rimanere all’interno. In seguito all’assalto, Israele ha dichiarato il suo elevato stato di preparazione per un potenziale conflitto.
In una trasmissione televisiva, il primo ministro Netanyahu ha dichiarato: “Siamo in guerra”. Ha anche affermato che l’IDF, l’organo che raggruppa le forze di difesa israeliane, rafforzerà i suoi dispiegamenti al confine per dissuadere altri dal “commettere l’errore di unirsi a questa guerra”. In un discorso successivo, ha minacciato di “trasformare Gaza in un’isola deserta” e ha esortato i suoi residenti a “andarsene adesso”.
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
È il mio cuore
il paese più straziato.
(G. Ungaretti, San Martino del Carso, 1916)
Un cane che si morde la coda:
Studiare in senso diacronico la storia del conflitto di Israele e Palestina, è doveroso per comprendere le ragioni dell’attuale conflitto, motivo per cui è stato proposto nei paragrafi precedenti ma potrebbe non essere il metodo di analisi preferibile. Avete quindi sprecato tempo nel leggerlo? La risposta è ovviamente negativa, ma bisogna fare attenzione a non ritrovare nella storia le giustificazioni per le azioni che oggi vengono messe in atto. Non va trovata una “scriminante” e nemmeno “chi ha sbagliato per primo”. Piuttosto, capire il clima mediorientale attuale, caratterizzato da forti attriti fra il mondo arabo e quello ebraico, ci aiuta a valutare con maggior cognizione di causa ciò che succede, ciò che ci circonda. Nell’affrettarsi a schierarsi a favore o contro di una delle parti, senza comprendere fino in fondo ciò che è successo ab origine, si rischia di essere parziali nelle proprie affermazioni, faziosi o negligenti.
Ciascuno, ovviamente – e meno male che sia così – può sostenere le posizioni che ritiene più giuste, purché sia correttamente informato.
Israele, nella prospettiva dell’autore, è una realtà de facto, è un libero Stato, finanziariamente e tecnologicamente virtuoso in un contesto economico-sociale, quello del Medio Oriente, poco brillante. Il popolo ebraico, dopo secoli – se non millenni – di vessazioni e stermini, ha pieno diritto di istituire un proprio Stato, vivere come tutte o quasi le altre nazioni, in un luogo dove si identificano, tutelati come maggioranza e autonomi. Sin dalla sua nascita, Israele, volente o nolente, è stata una causa di guerre e frizioni nel mondo mediorientale, ed anche questo è un dato di fatto! Il disegno del nuovo Stato, proposto dalle Nazioni Unite nel ’48, prevedeva una minore espansione del territorio, con Gerusalemme lasciata sotto il controllo della Comunità Internazionale, senza alcuna bandiera, in modo tale da permettere che il luogo più sacro per le tre principali religioni monoteiste potesse essere franco da qualsiasi condizionamento politico. Ad aggiunta di questo, va necessariamente riportato che le forze dell’ordine israeliane sono state spesso colpevoli di attacchi e violenze verso la popolazione civile araba e palestinese, creando un disequilibrio di forze notevole e non giustificato.
Trovare chi ha la ragione in un conflitto decennale in cui si uccidono migliaia di persone, molte delle quali innocenti, indiscriminatamente tra israeliani e palestinesi, è un’impresa assai ardua. Forse bisognerebbe chiedersi “chi ha meno torto?”.
Ma, ancora, la risposta sarebbe viziata da parzialità, faziosità e negligenza.
I latini dicevano virtus in medias res, tradotto come “la verità sta nel mezzo”. Certamente la Palestina ha le sue colpe, così come Israele ne ha. La narrazione di uno Stato aggredito e uno aggressore, qualunque sia esso, è fantasiosa. Ad oggi, quando la questione è calda, schierarsi nel mezzo porta automaticamente ad essere considerati ignavi, o filoisraeliani o filopalestinesi, dipende da chi ti insulta. Quando ripensiamo alle guerre nella storia, seppur in alcuni casi è arduo, si ritrovano sempre ragioni a favore e ragioni contro lo stato aggredito e lo stato aggressore. Ai posteri l’ardua sentenza.
In una terra contesa, sacra e profana, su cui hanno camminato Cristo, Yahweh e Maometto, nessuno riesce a stabilire la pace tanto osannata e predicata da questi ultimi (anche se su Yahweh, il dio antico testamentale, avrei qualche dubbio). È una terra [promessa] di nessuno.
Carlo Buccisano
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I contenuti degli articoli rappresentano esclusivamente le idee e le opinioni degli autori, e in nessun modo i punti di vista dell'Università Bocconi né dell’associazione IUS@B.
[1] Conosciuto anche come Lawrence d’Arabia. [2] v. Kahanismo; in poche parole, attualmente alcuni esponenti del movimento sionista affermano che gli ebrei, in ottica biblica, sono il “popolo eletto” da Yahweh e la loro supremazia sul resto del mondo non è solo spirituale ma dev’essere anche politica. [3] Egitto, Siria, Libano, Iraq e Giordania. [4] Ilan Pappé, The Making of the Arab-Israeli Conflict, 1947-1951, Londra, Tauris, 1992, p. 92. [5] Linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949 fra Israele e alcuni fra i Paesi arabi confinanti (Siria, Giordania ed Egitto) alla fine della guerra arabo-israeliana del 1948-1949. Ha servito come un confine de facto dello Stato di Israele dal 1949 fino alla Guerra dei Sei Giorni del 1967. [6] Claudio Vercelli, Breve storia dello stato di Israele, 1948-2008, Carocci, 2008. [7] Anche semplicemente “intifada”, che in arabo significa “rivolta”. [8] Gruppo Palestinese di Monitoraggio per i Diritti Umani, ottobre 2001 [9] Ivi, infatti, sorge la Moschea della Roccia, sacra per i musulmani, e il Monte del Tempio, sacro per gli ebrei. [10] L’allora presidente dell’ANP. [11] Spencer C. Tucker, The Encyclopedia of the Arab-Israeli Conflict: A Political, Social, and Military History, ABC-CLIO, 2008. [12] Conflitto armato combattuto dal 6 al 25 ottobre 1973 tra una coalizione araba, composta principalmente da Egitto e Siria, e Israele.
Bibliografia e fonti:
- Israele-Hamas, la notte più lunga, articolo di Gianni Riotta, pubblicato su "La Repubblica" il 28.10.2023
- Claudio Vercelli, Israele. Una storia in 10 quadri, Laterza, Roma-Bari, 2022
- Lorenzo Kamel, Terra contesa. Israele, Palestina e il peso della storia, Carocci, Milano, 2022
- Dove nasce il conflitto tra Israele e Palestina, articolo di Paolo Mosetti, pubblicato su "Wired" il 19.10.2023
- Il processo di pace tra Israele e Palestina, quali sono le soluzioni proposte e perché hanno fallito,
articolo di Erminio Fonzo, pubblicato su "Geopop" il 23.10.2023
- Palestina e Israele: la storia del conflitto e le tappe principali, articolo di Lorenzo Stasi, pubblicato su
"Corriere della Sera" il 12.10.2023
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