La politica economica del nuovo governo al vaglio dei principi costituzionali
- Giulia Carboni
- 7 dic 2022
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 8 dic 2022

Alla luce dei risultati elettorali, che come noto hanno sancito una schiacciante vittoria di Fratelli d’Italia, primo partito di centrodestra, e alla repentina formazione del nuovo esecutivo presieduto da Giorgia Meloni, prima donna a ricevere il conferimento dell’incarico, il presente articolo si propone di esaminare, seppur non in modo esaustivo, il programma economico di detto partito, in larga parte coincidente con quello degli altri partiti della coalizione.
Dall’analisi del programma i più significativi punti in materia economica sono:
l’aggiornamento mirato del PNRR;
l’incentivo alla rilocalizzazione delle attività produttive in Italia e la promozione del Made in Italy;
eliminare il reddito di cittadinanza per sostituirlo con un altro strumento di maggiore efficacia;
innalzamento delle pensioni minime, sociali e di invalidità, al fine di adeguarle all’incremento del carovita dovuto all’inflazione;
riduzione delle tasse sul lavoro attraverso il taglio strutturale del cuneo fiscale e contributivo;
stabilità dei bilanci;
una fiscalità più equa prevedendo una riforma dell’IRPEF e l’introduzione del cosiddetto quoziente familiare, l’eliminazione dell’IRAP, razionalizzazione dei tributi di minor impatto, Cedolare secca al 21% anche per l'affitto degli immobili commerciali in zone svantaggiate e degradate, l’introduzione della flat tax e di altre misure a vantaggio dei contribuenti.
Di tutte queste proposte, una delle più dibattute è senza dubbio l’introduzione di una flat tax cosiddetta “progressiva”, per la difficoltosa compatibilità tra i meccanismi di prelievo ed i principi costituzionali in materia tributaria.
Letteralmente, “flat tax” si traduce come “imposta piatta”: consiste nell’applicare un’aliquota fissa per calcolare quanto, della base imponibile, bisogna versare allo Stato anziché prevedere un incremento di detta aliquota in base alle fasce di reddito.
In pratica, si tratta di una tassa che risponde al principio di proporzionalità ma non a quello di progressività, e in assenza di progressività dell’aliquota, non c’è redistribuzione del reddito tra gli appartenenti alle varie fasce di contribuzione.
In linea di principio, la ragione ideologica di ispirazione della flat tax è estremamente liberale: il reddito di un individuo è concepito come di sua privata proprietà, ed in quanto tale sacro e inviolabile, quindi lo Stato non dovrebbe ingerire “espropriando” una parte dei cittadini della loro proprietà a vantaggio di altri cittadini meno abbienti.
Il pensiero che stiamo osservando è strettamente meritocratico: nella maggior parte dei casi i cittadini più abbienti sono coloro che svolgono una professione che richiede un alto grado di qualificazione (e quindi di studio e formazione), che comporta la sopportazione di un maggior grado di rischio ed alla conduzione di una vita più stressata, e non di rado spinge a lavorare più di quanto previsto (si pensi ai medici, avvocati ed altri liberi professionisti, direttori generali, imprenditori e così via); pertanto, tali soggetti avrebbero diritto ad una maggiore retribuzione, che confluisce chiaramente tra le loro proprietà, di cui possono liberamente disporre. In quest’ottica, sarebbe piuttosto da lasciare alla libera scelta del cittadino la possibilità di distribuire parte delle sue proprietà, più nello specifico del suo reddito, ai cittadini meno abbienti, in virtù dei poteri che il diritto di proprietà implica per il suo titolare.
Condivisibile o meno che sia il ragionamento appena analizzato, questo non risulta del tutto compatibile con la Costituzione Italiana, la quale all’art. 42 certamente tratta della proprietà privata, non attribuendole però il rango di diritto fondamentale: essa è senz’altro riconosciuta, così come quella pubblica, ma non è posta a fondamento della costruzione giuridico-costituzionale complessiva, e pertanto può essere mitigata, come dimostra il riferimento costituzionale all’istituto dell’espropriazione.
Quando il dettato costituzionale parla di proprietà privata, presuppone il superamento della disciplina del Codice civile, cronologicamente anteriore e chiaramente figlia del liberalismo classico ottocentesco, ed anzi privilegia alla proprietà privata la valorizzazione della funzione sociale dei beni. L’articolo 42 è quindi un’ottima cartina tornasole per saggiare la “sacralità” della proprietà privata nel nostro ordinamento, e l’esito farebbe sicuramente scandalizzare qualunque liberale del XIX secolo; ma così è.
Del resto, la Costituzione italiana è stata scritta in un periodo storico molto particolare, subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale; l’Assemblea costituente era composta dai rappresentanti di una molteplicità di ideologie diverse, tra le quali spiccavano le voci del conservatorismo-liberalismo ereditario della DC, e la socialdemocrazia del PSI e del PCI. Dal tentativo di integrazione e compromesso di queste due voci, così diverse tra loro, è nato un testo costituzionale con due anime, nessuna delle quali in grado di prevalere nettamente sull’altra, sfociate nell’avvaloramento della fondamentale solidarietà sociale.
Senza dubbio la solidarietà sociale diventa un valore assai più fondante della proprietà privata: lo vediamo nell’articolo due, nella clausola di utilità sociale richiamata nell’art. 41 in merito alla libertà di iniziativa economica privata, dal sopracitato art. 42 e così via. Uno degli esempi più lampanti del valore di solidarietà sociale è l’articolo 53, che recita:
“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.
Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
Da qui si comprende come il nostro sistema tributario sia improntato al criterio di proporzionalità, ma anche a quello di progressività, in ossequio alle finalità redistributive dovute al dovere di solidarietà sociale di cui si parlava pocanzi.
Ma allora, quello che intende fare la destra italiana è incostituzionale?
Possiamo rispondere di no: l’articolo 53 della Costituzione dice che il sistema tributario è “informato” a criteri di progressività, senza significare che ogni singolo tributo dovuto allo Stato debba essere ad aliquota progressiva, ma che al contrario il sistema tributario nel suo complesso debba risultare progressivo.
Poiché i tributi che contribuiscono maggiormente al gettito dello stato sono IRPEF ed IRES, l’importante è che siano queste imposte ad essere progressive.
Leggendo però il programma della coalizione di centrodestra, che sul punto coincide con quello di Fratelli d’Italia, le modifiche che si vogliono introdurre non comprometterebbero la progressività di IRPEF ed IRES, ragion per cui sembrerebbero non porsi in contrapposizione al dettato dell’articolo 53.
Quello che concretamente la destra propone, infatti, è la “estensione della flat tax per le partite IVA fino a 100.000 euro di fatturato, flat tax su incremento di reddito rispetto alle annualità precedenti, con la prospettiva di ulteriore ampliamento per famiglie e imprese”.
Il termine “estensione”, peraltro, non è casuale: una previsione simile nel nostro ordinamento già la adotta. Si tratta della cosiddetta “mini flat tax”, fortemente voluta dalla Lega e introdotta con la legge di bilancio del 2019 con riferimento alle partite IVA fino a 65.000 euro. Mentre però, nel programma della Lega, portare la flat tax per le partite IVA fino a 100.000 euro non sarebbe stata che una fase di un ben più ambizioso programma che avrebbe dovuto culminare nell’estensione della “tassa piatta” a tutte le persone fisiche e giuridiche senza limiti di reddito (questo sì in contrasto, come detto, con la formulazione attuale dell’art. 53), nulla di simile risulterebbe dalla lettura del programma di centro-destra, di Fratelli d’Italia o di Forza Italia.
Per concretizzare il già prospettato programma della Lega servirebbero, anche con la nuova composizione dell’assemblea parlamentare, maggioranze rafforzate per la modificazione del dettato costituzionale, che nemmeno a seguito della straordinaria prevalenza alle elezioni di settembre sono state raggiunte in Parlamento; perciò, non è di certo della proposta leghista che si parla, ormai, quando si parla di flat tax, né si tratta della celebre aliquota fissa del 15% per tutti di cui pur si era discusso.
Quindi, in concreto, le previsioni della flat tax del governo Meloni, in cosa consisterebbero?
L’estensione della flat tax per le partite IVA fino a 100.000, altro non significa che estendere quanto già previsto (un’aliquota fissa per i detentori di partita IVA) ad una soglia più alta di fatturato prodotto.
Per quanto riguarda, invece, la flat tax su incremento di reddito, si prevede un’aliquota fissa del 15% (appunto flat tax) da applicare non all’intero reddito dichiarato, ma all’incremento di reddito prodotto in quell’anno rispetto al reddito annuale massimo dichiarato in un periodo pluriennale di riferimento, per evitare possibili aggiramenti (flat tax incrementale).
Questo meccanismo, come esaminato, non si pone in aperto contrasto con l’articolo 53, anche se potrebbe comunque generare delle distorsioni quanto all’“equità orizzontale”.
Il responsabile del dipartimento di Economia e Finanza di Fratelli d’Italia, Maurizio Leo, spiega che il principio alla base di questa previsione è premiare “chi lavora di più, chi si impegna di più, chi assume di più... chi contribuisce ad accrescere la ricchezza del Paese”, e poiché non si tratta di un tipo di tassazione apertamente vietato dall’ordinamento, potrebbe essere invece un meccanismo per valorizzare altri principi pur previsti nella nostra costituzione, come la meritocrazia e la contribuzione allo sviluppo del Paese.
Solo l’azione di governo dimostrerà se le intenzioni così descritte saranno realizzate. Ma soprattutto, a questo punto, un’altra domanda sorge spontanea: l’Italia, dal punto di vista del bilancio pubblico, può permettersi questa perdita di gettito?
Di Giulia Carboni
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