La madre di tutte le riforme
- Rocco Filippo Litterio
- 22 dic 2023
- Tempo di lettura: 4 min
“La madre di tutte le riforme, stabilizzante e democratica”; è così che il Presidente del Consiglio Meloni ha definito il disegno di legge sulla riforma costituzionale del cosiddetto “premierato”, approvata dal Consiglio dei Ministri lo scorso 3 Novembre, che introduce, appunto, l’elezione diretta del Premier da parte dei cittadini. Una riforma sicuramente rivoluzionaria, sia ai fini delle modifiche costituzionali, sia per le sue peculiarità rispetto alle altre forme di premierato europee, che renderanno il sistema elettorale italiano un unicum in occidente. Anticipando l’ovvia domanda a riguardo che spontaneamente sorgerebbe, immergiamoci nel contenuto del disegno di legge, cercando di comprenderne gli effetti giuridici e i risvolti politici.
Il primo dei cinque articoli è probabilmente quello di più facile e immediata comprensione: con l’abrogazione del secondo comma dell’articolo 59 della Costituzione, verrebbe abolita la figura del senatore a vita su nomina del Presidente della Repubblica. Un provvedimento che, contrariamente allo spirito e all’identità della riforma nel suo complesso, come detto, singolare e distinta, conformerebbe l’Italia agli altri paesi occidentali, nei quali non esistono membri del parlamento nominati a carattere perpetuo dal Capo dello stato. Complementare a questo primo articolo è l’ultimo, il numero 5, che garantirebbe la continuità e la stabilità della posizione dei senatori a vita di nomina presidenziale tuttora in carica. Anche il secondo articolo produce un effetto giuridico abbastanza chiaro e circoscritto, limitando la possibilità del Presidente della Repubblica di sciogliere anche singolarmente le Camere e imponendo, viceversa, l’eventuale scioglimento collettivo di entrambi i rami del Parlamento.
Il cuore della riforma (e da qui di tutte le discussioni che ne conseguono), è costituito dagli articoli 3 e 4: rispettivamente, l’articolo 3, comma 2, andando a modificare l’articolo 92 della Costituzione, introdurrebbe anzitutto, per la prima volta nella storia dell’Italia unita, l’elezione diretta, da parte dei cittadini, del Capo del Governo, parallelamente a quella delle Camere; va da sé che il governo eletto, così come il parlamento, resti in carica per 5 anni. Si tratterebbe, indubbiamente, di un cambiamento epocale per l’assetto istituzionale del nostro paese, al quale quest’ultimo sarebbe totalmente nuovo, e che ha, logicamente, scatenato una serie di discussioni, non solo di natura politica, bensì anche giuridica. Per citare alcune delle innumerevoli opinioni, Sabino Cassese, ex giudice costituzionale e professore universitario, ha approvato la strada percorsa dalla riforma, elogiando la solidità e la stabilità che garantirebbe agli esecutivi; di contro, Giuliano Amato, ex presidente della Corte Costituzionale nonché del Consiglio dei Ministri, ha affermato che il provvedimento indebolirebbe le camere e priverebbe il Presidente della Repubblica del suo ruolo di garanzia. Oltre a quanto appena detto e sempre all’interno del secondo comma, l’articolo 3 prevedrebbe l’attribuzione alle liste della coalizione a sostegno del Presidente del Consiglio eletto, di un premio di maggioranza pari addirittura al 55% dei seggi delle due Camere. Senza dubbio parliamo di un altro potenziale cambiamento significativo del nostro sistema elettorale, che ha, di nuovo, animato numerose vivaci menti della dottrina, sia favorevoli che non: Francesco Saverio Marini, ordinario di istituzioni di diritto pubblico e prorettore dell’Università di Roma Tor Vergata, afferma che quella del 55% è “la soglia più bassa compatibile con la stabilità governativa”; drastico è invece Andrea Pertici, ordinario di diritto costituzionale all’Università di Pisa, che ritiene che con un così alto numero di seggi si avrebbe un premier che, di fatto, controllerà il parlamento.
Proseguendo la lettura del testo del disegno di legge, resta un ultimo articolo da esaminare, ossia il numero 4; il quale, al primo comma, modificando l’articolo 94 della Costituzione, imporrebbe al Presidente della Repubblica, qualora il Presidente del Consiglio eletto e il suo nuovo governo non ottenessero la fiducia dalle Camere, di conferire una seconda volta, sempre al Premier eletto, l’incarico di formare il governo. Nel caso in cui il parlamento negasse la fiducia anche a questo secondo governo, al Capo dello Stato spetterebbe sciogliere le camere indicendo, contestualmente, nuove elezioni.
Il secondo comma, invece, sancirebbe che, in caso di dimissioni da parte del Presidente del Consiglio, il Presidente della Repubblica possa, in alternativa allo scioglimento delle camere e alla contestuale convocazione delle elezioni, conferire l’incarico di formare il governo al Premier dimissionario o ad un parlamentare della sua maggioranza, che avrebbe il compito di attenersi al programma politico del proprio predecessore.
Anche qui, com’è ovvio che sia, siamo di fronte a diverse, ipotetiche novità non di poco conto, sulle quali la dottrina ha già cominciato a riflettere e ad esprimersi, favorevolmente o contrariamente: Giovanni Guzzetta, ordinario di diritto pubblico all’Università di Roma Tor Vergata, dichiara di apprezzare la prospettiva di un governo perennemente fondato sulla volontà popolare, che possa tornare ad esprimersi qualora la maggioranza da loro scelta si dissolva; di opinione diametralmente opposta è Giovanni Maria Flick, ex Ministro della Giustizia e Presidente della Corte Costituzionale, il quale reputa invece illogico vincolare un Capo del Governo voluto dal popolo al voto di fiducia parlamentare, ed evidenzia il possibile conflitto politico tra il Premier eletto e il parlamentare potenzialmente suo successore, in caso di esito negativo sul voto di fiducia.
Insomma, da buon provvedimento politico, questa riforma costituzionale è già riuscita, prima ancora di essere approvata, a dividere l’intera scena nazionale, politica e giuridica. Qualora entrasse realmente in vigore, dividerebbe sicuramente l’assetto istituzionale italiano da quelli esteri: come già premesso all’inizio, infatti, la forma di governo che il nostro paese assumerebbe dopo questa riforma sarebbe del tutto dissimile dalle altre forme di “premierato repubblicano” occidentali, che invero hanno più volte influenzato (e continuano a farlo) l’orientamento dei diversi partiti in materia di riforme istituzionali. Parliamo, sicuramente, del “cancellierato” tedesco, dove, però, il Capo del Governo (il Cancelliere Federale, appunto), è eletto dal Bundestag; ma parliamo anche del presidenzialismo francese che, tuttavia, a differenza dell’ipotetico “premierato” italiano, prevede che il Premier sia nominato, seppur sulla base del risultato delle elezioni, dal Presidente della Repubblica.
È piuttosto singolare che la “madre di tutte le riforme” nasca proprio da una riforma, come sono singolari le caratteristiche che ne connotano la fisionomia; sono invece molteplici i dubbi e i pensieri che ha suscitato, ma d’altra parte, cos’è la politica, se non il pensiero di tanti?
Rocco Filippo Litterio
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