top of page

I contenuti degli articoli rappresentano esclusivamente le idee e le opinioni degli autori, e in nessun modo i punti di vista dell'Università Bocconi.

L'ergastolo ostativo tra problematiche riforme


Uno scatto della mostra fotografica "Ri-scatti: per me si va tra la perduta gente". PAC - Padiglione d'Arte Contemporanea, Milano (2022)

A seguito dell’approvazione in sede di Consiglio dei ministri del nuovo decreto-legge 31 ottobre, n. 162 in tema di giustizia, è riemersa la delicata questione dell’ergastolo ostativo, la forma di ergastolo oggi dominante nella prassi.[1] Con tale espressione si allude ai casi in cui la tipologia di reato per il quale è stata inflitta la condanna all’ergastolo osta alla concessione di benefici penitenziari - quali le misure alternative alla detenzione, i permessi premio e il lavoro all’esterno - e specialmente osta a quello della libertà condizionale, ove il soggetto non collabori con la giustizia.


La disciplina originale, prevista dall’art. 4 bis della L. 354/1975 (Legge sull’ordinamento penitenziario) aveva infatti introdotto un doppio binario per i casi in cui fosse prevista la pena dell’ergastolo: da un lato era generalmente prevista per i condannati, decorso un certo periodo di tempo, la cessazione della permanenza in carcere grazie alla concessione di benefici penitenziari; dall’altro, a carico di ergastolani responsabili di specifici reati di particolare allarme sociale (tra cui i delitti commessi per finalità di terrorismo, di eversione e i delitti riconducibili alla criminalità organizzata) si introduceva una presunzione di perdurante pericolosità. Tale presunzione era assoluta e poteva essere superata solo per effetto della collaborazione, cui la legge subordinava la concessione di benefici.

Al comma 1 bis venivano comunque fatte salve le ipotesi di collaborazione impossibile (in quanto fatti e relative responsabilità erano stati integralmente accertati) o oggettivamente irrilevante (in quanto al detenuto era stata applicata una delle circostanze attenuanti previste dall’art. 62 n. 6 c.p.[2] ovvero dall’art. 114 c.p.[3]), in presenza delle quali il condannato per un reato ostativo poteva in ogni caso accedere ai benefici. Al di fuori di queste eccezioni, per il condannato non collaborante residuava la sola prospettiva del carcere a vita.


Sin dalla sua introduzione, l’ergastolo ostativo ha presentato una storia tormentata e complessa, in particolare per quanto concerne i suoi profili di compatibilità con la Costituzione. Negli anni 90’ e nei primi anni 2000 la Consulta salva inizialmente l’istituto, rigettando le questioni di legittimità sollevate dal giudice ordinario. È solo nel 2019 che per la prima volta viene pronunciata una sentenza di accoglimento avente ad oggetto la possibilità per i condannati per reati di mafia di accedere ai permessi premio. Per effetto di questa pronuncia, queste misure possono essere concesse anche al condannato non collaborante, a condizione che si possa escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino degli stessi. La pronuncia si inserisce in un filone giurisprudenziale presente a livello europeo dal momento che, nello stesso anno, la Corte Edu, nella sentenza Viola c. Italia, affermava l’incompatibilità dell’ergastolo ostativo con il principio di umanità della pena di cui all’art. 3 Cedu.

Nel 2021 viene nuovamente sollevata una questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 bis con riferimento all’accesso alla liberazione condizionale sempre da parte dei condannati per reati di mafia. Disattendendo le aspettative, la Corte, mediante l’ordinanza 97/2021 accerta ma non dichiara contestualmente l’illegittimità dell’ergastolo ostativo e rinvia l’esame della questione al 10 maggio 2022. La ragione sottesa a questa scelta era che un intervento solamente demolitorio avrebbe compromesso la stabilità complessiva della disciplina di contrasto alla criminalità organizzata. La Consulta quindi auspicava, in un’ottica di leale collaborazione istituzionale, un pronto intervento del legislatore, che non viene portato a compimento, dal momento che il Parlamento elabora un testo approvato dalla Camera ma non dal Senato: pertanto il 10 maggio, la Corte costituzionale pronuncia un’altra ordinanza con cui rinvia l’esame all’8 novembre 2022, motivando la propria scelta con “lo stato di avanzamento dell’iter di formazione della legge”.

A seguito dello scioglimento delle Camere e la formazione del nuovo governo, l’approvazione del testo di riforma sembra nuovamente cadere nel dimenticatoio. Dato il mancato progresso sul tema, l’udienza dell’8 novembre pareva quindi il momento decisivo affinché la Consulta affermasse in maniera definitiva l’illegittimità dell’art. 4 bis (che già aveva accertato nel 2019).


In questo scenario, l’intervento del Governo del 31 ottobre costituisce un vero e proprio colpo di scena, in quanto riesuma la proposta di legge approvata dalla Camera, riproponendola nella forma di un decreto-legge (con minori modifiche). Di conseguenza la Consulta, con l’ordinanza dell’8 novembre ’22, restituisce gli atti alla Corte di Cassazione in quanto [le nuove disposizioni] hanno trasformato da assoluta in relativa la presunzione di pericolosità che impedisce la concessione dei benefici e delle misure alternative a favore di tutti i condannati per reati cosiddetti “ostativi”, che non hanno collaborato con la giustizia. Costoro sono ora ammessi a chiedere i benefici, sebbene in presenza di nuove, stringenti e concomitanti condizioni, diversificate a seconda dei reati che vengono in rilievo. […] Gli atti vengono dunque restituiti alla Cassazione, cui spetta verificare gli effetti della normativa sopravvenuta sulla rilevanza delle questioni sollevate, nonché procedere a una nuova valutazione della loro non manifesta infondatezza.

Alla luce di tali considerazioni, parrebbe innanzitutto che il legislatore abbia prestato orecchio al monito della Consulta eliminando la presunzione assoluta di pericolosità. In effetti, analizzando il testo, è possibile apprezzare la riforma della struttura cardine della precedente disciplina: archiviata la subordinazione alla collaborazione, l’accesso ai benefici premiali e alle misure alternative dipenderà dal soddisfacimento dei seguenti requisiti:

a) mantenimento di una regolare condotta carceraria;

b) l’integrale adempimento delle obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie derivanti dal reato;

(c) l’allegazione di “elementi specifici che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché - nel solo caso di reati riconducibili alla criminalità organizzata - il pericolo del ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi”. Queste condizioni sono contenute nuovo comma 1 bis che sostituisce per intero il previgente comma 1 bis, il quale viene quindi soppresso.

Un altro elemento innovativo è la previsione di pareri che devono essere rilasciati da parte delle procure. In particolare, è richiesto l’intervento del p.m. presso il giudice che ha emesso la sentenza di primo di grado. Infine, per quanto concerne specificatamente la libertà condizionale, viene disposto che il condannato all’ergastolo non collaborante (ma che comunque soddisfi le condizioni sopra elencate) potrà accedervi solo dopo aver espiato almeno 30 anni di pena e salderà il suo debito con la giustizia dopo aver trascorso altri 10 anni in libertà vigilata.


Nonostante la riforma del punto più spinoso della previgente disciplina, permangono comunque degli aspetti critici che potrebbero indurre quantomeno a dubitare della tenuta costituzionale delle nuove disposizioni. In primis, nel decreto-legge viene ampliato il catalogo dei reati ostativi includendo i casi di pene concorrenti inflitte per delitti diversi se commessi per lo stesso fine (e questo rappresenta un novum - in senso peggiorativo - rispetto al testo approvato dalla Camera). Sorgono, inoltre, delle perplessità rispetto al ruolo svolto dalle procure in merito alla formulazione di pareri: nonostante la normativa non preveda esplicitamente il loro carattere vincolante, potrebbero comunque indebitamente limitare la discrezionalità del magistrato di sorveglianza, il quale si trova nella posizione migliore per formulare un giudizio data la sua vicinanza alla corrente situazione del condannato.

Un ulteriore elemento critico riguarda il punto c) del nuovo comma 1 bis, il quale prevede che per accedere ai benefici penitenziari il condannato debba allegare elementi che consentano di escludere l’attualità dei collegamenti e, nel caso di delitti riconducibili alla criminalità organizzata, anche il pericolo di ripristino. Nonostante la legge parli di un solo onere di allegazione, appare incerto se nella pratica questo non possa finire per tradursi in un’inversione dell’onere della prova (che diventerebbe una vera e propria probatio diabolica).

Relativamente alla libertà condizionale, fissando a trent’anni la soglia temporale per l’accesso da parte del condannato non collaborante, la riforma potrebbe creare un divario tra la condizione di questo condannato e quella del condannato collaborante che, sulla scorta della normativa vigente, può accedere alla liberazione condizionale dopo che siano trascorsi “solo” 10 anni. Tale divario, se irragionevole, potrebbe tradursi in un vizio di illegittimità costituzionale per violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione. Su quest’ultimo punto si può formulare anche l’ulteriore considerazione: la soglia temporale di trent’anni prevista per il condannato non collaborante eccede un limite introdotto dalla Corte Edu, la quale ha rilevato che tra gli Stati contraenti “vi è una netta tendenza in favore della creazione di un meccanismo speciale che garantisca un primo riesame entro un termine massimo di venticinque anni da quando la pena perpetua è stata inflitta”.[4] Pertanto, qualora il diritto nazionale non preveda tale possibilità “una pena dell’ergastolo effettivo contravviene alle esigenze derivanti dall’art. 3 della Convenzione”. Il mancato rispetto di un vincolo derivante dal diritto sovranazionale comporta una chiara violazione dell’art. 117 della Carta costituzionale e potrebbe dare adito ad una nuova questione di legittimità.


Infine, nel sopprimere il previgente comma 1 bis, la nuova disciplina ha abrogato i casi, oggi previsti, di collaborazione impossibile o irrilevante. Ne consegue che anche in queste ipotesi il giudice sarà tenuto a vagliare la sussistenza delle condizioni previste dal comma 1 bis per la concessione dei benefici. L’ergastolano finisce così per trovarsi in una posizione addirittura peggiore rispetto a quella prevista dal precedente sistema normativo.


Nel complesso, il legislatore, pur avendo formalmente aderito al monito della Corte costituzionale, ha non solo voluto ridurre al minimo le aperture al condannato non collaborante auspicate dalla Consulta, ma si è anche mosso in direzione contraria alla giurisprudenza della Consulta come nei casi della soppressione di ipotesi di collaborazione impossibile o irrilevante e l’allargamento della categoria di reati ostativi.


Pertanto, nonostante il rinvio, è lecito aspettarsi che i giudici ordinari solleveranno nuove questioni di legittimità sulle quali la Consulta avrà modo di pronunciarsi, ci si augura, in maniera definitiva. Tra l’altro, è bene ricordare che l’art. 27 c. 3 Cost., nel prevedere il principio della finalità rieducativa della pena, si riferisce a tutte le pene e quindi anche all’ergastolo.



By: Camilla Garzon


[1] Interessa infatti oltre 1.150 condannati su un totale di circa 1800 ergastolani. [2] “Avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante il risarcimento di esso, e, quando sia possibile, mediante le restituzioni; o l'essersi, prima del giudizio e fuori del caso preveduto nell'ultimo capoverso dell'articolo 56, adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato.” [3] “Il giudice, qualora ritenga che l'opera prestata da taluna delle persone che sono concorse nel reato a norma degli articoli 110 e 113 abbia avuto minima importanza nella preparazione o nell'esecuzione del reato, può diminuire la pena.” [4] Vinter c. Regno Unito, Grande Camera, 9 luglio 2013.



---

I contenuti degli articoli rappresentano esclusivamente le idee e le opinioni degli autori, e in nessun modo i punti di vista dell'Università Bocconi.



Comments


bottom of page